Ospedale-territorio: dal “mito” ad una realtà mai programmata
10 LUG – Gentile Direttore,
più che averci insegnato tante cose la pandemia da Covid 19 ha semplicemente reso evidente, con la ineluttabile forza dei fatti che compongono la realtà in cui operiamo, quello che già tutti sapevamo: il rapporto ospedale-territorio, cure primarie-cure delle acuzie semplicemente non esiste o a voler essere ottimisti è gravemente carente. Si deve comunque notare che evidentemente il problema è diffuso in molti paesi dal momento che l’OCSE ha dedicato recentemente due rapporti al problema: “Workforce and Safety in Long-Term Care during the COVID-19 pandemic” e “Realising the Potential of Primary Health Care”.
Le modificazioni demografiche legate in parte anche allo sviluppo della medicina, hanno determinato un mutamento mai registrato prima nella storia delle patologie passando da quelle monofattoriali, alle quali i medici erano formati, a quelle multifattoriali derivanti da fattori di rischio che, con vario peso e variamente combinati, producono malattie degenerative che si cronicizzano. Di fronte a questa situazione il dettato costituzionale che garantisce “universalità ed equità di accesso a tutte le persone” e la legge 833/78 che conferma la “globalità di copertura in base alle necessità assistenziali dei cittadini” rischiano di diventare solamente affermazioni di principio che non trovano riscontro nella realtà se non per piccoli segmenti del percorso di cura. I diversi ambiti in cui medico e i pazienti si muovono, per potere espletare la loro efficacia, devono essere collegati e consentire un percorso “fluido”.
Invece la prevenzione, la cura dell’acuzie, le cure costanti a bassa intensità della patologia cronica multifattoriale marciano su strade parallele, spesso dissestate, che non si incontreranno mai.
Nella mia oramai lunga esperienza di medico ospedaliero mi sarà capitato solamente due o tre volte di avere un rapporto di condivisione di esperienze e scambio di informazioni sul paziente con un medico di medicina generale. Senza volere incolpare nessuno, evidentemente il sistema non funziona.
Un altro aspetto conferma la mancanza di organizzazione a livello territoriale: l’uso improprio del pronto soccorso, che diventa la scorciatoia per trovare risposte che potrebbero essere tranquillamente fornite sul territorio. Recentemente ricordavo come la pandemia, invece di riempire i pronto soccorso, li ha svuotati perché evidentemente pazienti con sintomatologie legate a patologie intercorrenti a bassa intensità hanno preferito evitare il rischio contagio, dimostrando che l’accesso in Pronto Soccorso non era una necessità urgente ma era un modo rapido di ottenere quello che il territorio avrebbe dovuto garantire.
Senza volersi addentrare in valutazioni sul modello migliore di assistenza post acuzie di cui è ovviamente parte anche la “long term care”, ci sono alcuni dati ineludibili che dovrebbero formare la base per una valutazione serena della situazione che consenta di assumere i provvedimenti più efficaci.
Le competenze, la tecnologia e l’organizzazione necessaria per trattare patologie croniche multifattoriali sono complesse e difficilmente il singolo medico di medicina generale può garantirle. D’altra parte, è pur vero che Il terreno ideale e pratico di trattamento di tali patologie è la prossimità ai luoghi di vita e di lavoro del cittadino. Sono necessari investimenti significativi che creino le condizioni in grado di garantire che l’aggregazione di competenze, anche sul territorio, consenta di fornire risposte efficaci.
Per quel che riguarda i medici, certamente vi sono carenze di organico da colmare. Non dimentichiamoci che dai dati desumibili dall’Osservatorio Milano, pubblicato annualmente in partnership tra Comune di Milano ed Assolombarda, che misura l’attrattività e la competitività di Milano nel confronto internazionale, analizzando vari benchmark alla voce “scienze della vita” riporta che la dotazione di personale sanitario qualificato impegnato nell’erogazione di servizi sanitari vede al primo posto Stoccarda con 20,91 addetti ogni 1.000 abitanti mentre Milano è ultima con 11,8.
Vanno quindi colmate le falle dovute ad eccesivo economicismo e mancata programmazione. Programmazione che per esser efficace dovrebbe affidare la gestione del personale medico a diverso titolo impiegato nel SSN ad un unico soggetto che non può essere altro che il Ministero della Salute.
L’esperienza pregressa non consente un grande ottimismo. Non vorrei che tra dieci anni, chi ci sarà starà ancora discutendo il problema del rapporto ospedale territorio ed il ruolo delle cure primarie.
Sergio Barbieri
Vicepresidente CIMO
10 luglio 2020
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