RASSEGNA STAMPA
Sondaggio Cimo: il 93% dei medici chiede un nuovo ruolo giuridico. Cassi: «Nodo risorse per premiare il merito»
«I medici sono una categoria che vuole essere riconosciuta per la propria professionalità, che chiede con forza un’autonomia giuridica e contrattuale e riconosce come interlocutore privilegiato, tra le istituzioni, il Ministero della Salute». È questo l’identikit del camice bianco, spiega Riccardo Cassi, presidente uscente Cimo, che emerge da un sondaggio tra i medici dipendenti effettuato in occasione del congresso elettivo che si terrà a Firenze dal 21 al 23 settembre dal titolo #Liberalaprofessione «Tra scienza medica e medicina amministrata».
Dal monitoraggio emerge che l’80% degli intervistati si sente vincolato in ogni atto quotidiano, alla burocrazia, sia di tipo amministrativo che clinico. Il 93% non è soddisfatto dell’attuale stato giuridico del medico perché non rappresenta il suo lavoro “vero” e questo stato dell’arte va ad inficiare il rapporto con i pazienti verso i quali, il 39% dei medici intervistati, ha un rapporto di difesa. La percentuale sale quando la domanda riguarda il rapporto tra medico e direzione amministrativa: il 70% ha dichiarato di sentirsi in
contrasto e di doversi sempre difendere.
Il «falso ideologico» del legame tra liste d’attesa e intramoenia
Uno dei nodi affrontati dal sondaggio è il «pregiudizio» che vede un legame tra liste d’attesa e attività intramoenia. «Nei mesi scorsi, politici di vecchi e nuovi partiti hanno dichiarato che la libera professione è la causa delle liste di attesa. Così abbiamo chiesto ai nostri colleghi cosa ne pensassero – continua Cassi – e il 43% ha risposto che non esiste alcuna correlazione, mentre il 38,5% attribuisce la causa delle liste di attesa, alla cattiva organizzazione delle Aziende sanitarie».
«Legare intramoenia e liste d’attesa – spiega il presidente di Cimo – di un falso ideologico. Ma chiariamo: se ci sono medici disonesti che allungano le liste per portare i pazienti nel proprio studio, allora in quel caso le regioni hanno tutti gli strumenti per controllare e sanzionare comportamenti irregolari, che ci guardiamo bene dal difendere. Ma il problema delle liste d’attesa è puramente organizzativo. Si tratta, soprattutto per diagnostica e sale operatorie, di tenerle aperte più tempo e se mancano i medici vanno assunti. Ci sono zone in cui a mezzogiorno chiude tutto. E se bisogna lavorare la domenica, va incentivato».
Voglia di centralismo in sanità
È forte la preoccupazione per l’attuale contesto socio economico: il 30% non ha chiaro il futuro del medico e il 61,4% immagina un’involuzione della professione. E si registra una voglia di centralismo in sanità: la soluzione auspicata dai medici intervistati, sta nell’avere come interlocutore privilegiato il Ministero della Salute (68,7%), prima delle Regioni a cui vogliono far riferimento solo il 22% e prima anche della Funzione Pubblica, riconosciuto solo dal 9,2%, e avere un’area contrattuale autonoma, richiesta dal 90% di quelli che hanno risposto al questionario.
«Questi dati confortano l’azione che Cimo ha intrapreso in questi anni nei riguardi della professione medica – continua Riccardo Cassi – azione che sarà rilanciata dalla dirigenza che uscirà dal congresso elettivo dei prossimi giorni e che porterà ad una nuova presidenza del sindacato. Le persone e le strategie possono cambiare ma la battaglia in difesa della professione e nel riconoscimento di uno stato giuridico che metta l’atto medico al centro delle cure, è nel Dna di Cimo. I medici scelgono questa professione per curare le persone e, nonostante la demotivazione derivante dalle riforme fallimentari degli anni 90, il 70 % dei medici intervistati sceglierebbe ancora questa professione. È compito del sindacato ricreare le condizioni, perché possano farlo nelle migliori condizioni possibili».
Le partite aperte per la professione, atto d’ indirizzo incagliato
In ballo ci sono importanti partite aperte. Dall’articolo 22 su formazione e possibilità di una carriera professionale alla riorganizzazione della rete ospedaliera, dalla determinazione dei fabbisogni reali di specialisti al nuovo contratto. Tasselli mancanti che lasciano il quadro dell’assistenza pesantemente incompleto. «Un vuoto quello dell’articolo 22 e della riforma dello stato giuridico del medico – spiega Cassi – che rende difficile anche il percorso disegnato dall’atto di indirizzo, ovvero la carriera professionale. Attualmente vengono previsti incarichi dirigenziali che non hanno proprio senso, serve un sistema di valutazione diverso, centrato sulle competenze. Abbiamo segnalato al ministero la contraddizione e lo strabismo tra un piano nazionale esiti che misura le strutture e i medici per quello che fanno e un contratto in cui i medici vengono valutati sulla base del budget. Il ministro questa cosa l’aveva capita ed era stata introdotta nell’art. 22. Ci hanno escluso dal ruolo unico della Madia ma non si sa che cosa siamo. L’aspetto fondamentale sono le risorse e la tenuta dei nostri fondi, altrimenti come fai a premiare il merito? Il Mef vuole continuare a rubare i nostri soldi e anche le regioni se vogliono gestire qualcosa devono mettere sul piatto delle risorse. Altrimenti si rischia di creare dei paria da tenere negli ospedali senza nessuna possibilità di crescita professionale».
Ma l’atto di indirizzo per la dirigenza si è incagliato proprio sul nodo risorse. «Perché alcune misure proposte dalle regioni – conclude Cassi – hanno avuto lo stop del Mef, che teme nuovi costi. L’ottica è sempre quella della cinghia stretta, finché questo paese non riparte non se ne esce. E temo che questo contratto non sarà in grado di dare un svolta, lascerà scontenti tutti. E il fatto che ci siano stati problemi sull’atto di indirizzo nel rapporto tra le istituzioni lascia presagire il peggio». «Altra priorità dovrebbe essere il welfare aziendale – conclude Cassi- così come le politiche di conciliazione famiglia-lavoro, part time in testa, e la tutela della meternità, ma anche in questo caso si presenta un problema risorse e la partita non è scontata. Sebbene ci sarebbe bisogno di una parità con il privato e l’impatto sarebbe senza dubbio inferiore rispetto a un aumento retributivo è vero che il datore di lavoro è diverso e comunque peserebbe sui bilanci pubblici».
di Rosanna Magnano