Puglia, chiudono otto ospedali. Ecco le conseguenze sui professionisti della sanità
C’è fermento nella sanità pugliese. Il piano di riordino di Asl e ospedali prevede la chiusura di otto strutture. Quattro sono in provincia di Bari: San Nicola di Trani e ospedali di Triggiano Canosa e Terlizzi; tre sono nel Brindisino (Fasano Mesagne e San Pietro Vernotico); una è nel Tarantino (Grottaglie). Pare risparmiato il Tavoliere, ma alcuni reparti si sposteranno di 100 km, nefrologia di Cerignola è previsto salire di parallelo fino a San Severo. Obiettivo del governatore Emiliano: avere un hub-ospedale di secondo livello in ciascun capoluogo (Andria deve ancora nascere), 15 ospedali di primo livello, con quasi tutte le specializzazioni, e 12 di base “vicini alle persone con più specialità e più reparti di quelli normalmente previsti”. Le polemiche non mancano, sia perché gran parte dell’investimento della Regione – 30 milioni – è destinato all’Asl Taranto che passa da 884 a 1081 letti, sia perché rinfocolate da vicende di cronaca, come la recente morte di un paziente di 37 anni, forse evitata se avessero funzionato meglio gli angiografi a Lecce e Brindisi.
I sindacati medici non sembrano contrari all’accorpamento. Per Arturo Oliva segretario Cimo Puglia, «va sostenuta l’applicazione del decreto 70 sugli standard ospedalieri a seguito del quale avvengono le chiusure. A volte la logica di un ospedale per campanile illude il paziente. Che invece non trova strutture capaci di offrire garanzie di sicurezza. Certo, il Governatore dopo che a primavera lo abbiamo incontrato non ci ha più convocati e invece un passaggio così epocale meritava concertazione. E resta un problema di fondo: il territorio non è attrezzato per sostenere l’assistenza ai pazienti cronici, che per la diagnostica afferiscono agli ambulatori ospedalieri, sicché se si chiude un presidio si può creare un disagio momentaneo all’utenza. Ma i sanitari sono ben contenti di fare 20-30 chilometri in più pur di lavorare in punti sicuri, con l’anestesista sempre presente, garanzie per i cittadini. Questa riforma potrebbe favorire la redistribuzione capillare delle competenze».
Che cosa succede al personale di un ospedale che chiude? «Il sanitario è ricollocato prontamente, in Puglia abbiamo un regolamento condiviso tra sindacati e regione che risale ai tempi del riordino voluto dal governatore Raffaele Fitto. Nessun medico o infermiere è rimasto a terra o ha dovuto trasferirsi da Santa Maria di Leuca a Foggia. In realtà il grosso delle strutture è stato riconvertito. E’ facile ritrovare uno specialista che effettua visite ambulatoriali nella stessa struttura dove esercitava prima. Tutto sommato le riconversioni puntellano la medicina territoriale, ma l’apporto di quello specialista in realtà avrebbe dovuto indirizzarsi alla rete ospedaliera. In alternativa ci si sposta nella struttura più grande, si viene ricollocati soprattutto nell’hub del capoluogo, specie tra gli apicali-non importa se la chiusura avviene nell’ambito di aziende sanitarie od ospedaliere -sono previste valutazioni comparative dei curricula ed è raro che si perda la direzione di un’unità di struttura complessa. Al più, con il declassamento a struttura semplice a valenza dipartimentale si verifica una decurtazione salariale, ma si salvaguarda il ruolo dirigenziale. Il riordino in itinere può essere un’occasione per meglio distribuire le competenze su tutta la rete ospedaliera pugliese, ma a patto di essere trasparenti». I sindacati chiedono in ogni caso più informazione.
«Ci siamo riuniti a Bari con gli ordini e i rappresentanti di Cittadinanzattiva» dice Oliva. «C’è uno sforzo delle Asl di potenziare la propria offerta. Solo a Lecce è previsto un piano assunzionale per 1000 posti di sanitari, per metà da riempire con stabilizzazioni, sempre restando nel limite di spesa del 2004 decurtato dell’1,4%. In pratica, non solo i contratti a tempo ma anche gli attuali atipici potranno lavorare meglio. Ma in questa fase delicata riteniamo la concertazione più importante che mai».