dottoressa[1]

Donne e professione medica, le proposte FNOMCeO (Doctor 33)

«Il freno agli avanzamenti di carriera delle donne in Italia non sono i figli ma la mancanza di strutture di supporto alla maternità e il doppio carico di lavoro sostenuto lungo tutto il percorso professionale». Ne è convinta Annarita Frullini, responsabile del gruppo di lavoro Osservatorio Fnomceo della professione medica-odontoiatrica femminile, alla vigilia dell’incontro che si svolge oggi a Roma organizzato dal coordinamento Donne Cimo. L’occasione per discutere di come viene considerata la crescente presenza femminile nella professione medica e per presentare le linee programmatiche per il 2014, anno europeo della conciliazione della vita professionale e familiare. Frullini ha elaborato proposte per una riorganizzazione del lavoro in sanità, un documento già presentato lo scorso anno in forma di “audizione partecipata” alle rappresentanze delle maggiori sigle sindacali e alle colleghe impegnate nelle consulte Enpam, chiedendosi se ha ancora significato uno specifico di genere, sia nella professione medica sia nelle altre professioni . «Le radici delle diseguaglianze – afferma l’esponente Fnomceo – non sono misurabili solo attraverso il genere, ma rimane fondamentale, sui diversi temi, ragionare in ottica di genere e disaggregare ogni dato per genere e generazioni. Pur crescendo nella professione, è provato che la presenza femminile non crescerà automaticamente nei ruoli decisionali, perché esiste un sottoutilizzo e uno spreco di competenze altamente qualificate, chiamato in inglese “leaky pipeline”. Occorre, pensare un welfare modulato sulle fasi del ciclo di vita delle persone». Ma le ultime riforme hanno penalizzato fortemente i professionisti che lavorano nel sistema sanitario e il valore della differenza rimane sempre un argomento di secondaria importanza; quindi, secondo Annarita Frullini, è necessario «scendere nel concreto e vedere come operare sulle organizzazioni, quando mancano certezze lavorative e siamo immersi in una precarietà non solo lavorativa».

di Renato Torlaschi